Nel mese di luglio del 64 d.C. un incendio si propaga rapidamente per Roma, divampando per nove giorni consecutivi e devastando il centro cittadino. Ce ne parla Tacito:
CORNELII TACITI
AB EXCESSV DIVI AVGVSTI ANNALIVM - LIBER XV - XXXVIII
XXXVIII. Sequitur clades, forte an dolo principis incertum (nam utrumque auctores prodidere), sed omnibus quae huic urbi per uiolentiam ignium acciderunt grauior atque atrocior. Initium in ea parte circi ortum quae Palatino Caelioque montibus contigua est, ubi per tabernas, quibus id mercimonium inerat quo flamma alitur, simul coeptus ignis et statim ualidus ac uento citus longitudinem circi corripuit. Neque enim domus munimentis saeptae uel templa muris cincta aut quid aliud morae interiacebat. Impetu peruagatum incendium plana primum, deinde in edita adsurgens et rursus inferiora, populando, antiit remedia uelocitate mali et obnoxia urbe artis itineribus hucque et illuc flexis atque enormibus uicis, qualis uetus Roma fuit. Ad hoc lamenta pauentium feminarum, fessa aetate aut rudis pueritiae [ aetas ], quique sibi quique aliis consulebant, dum trahunt inualidos aut opperiuntur, pars mora, pars festinans, cuncta impediebant. Et saepe dum in tergum respectant lateribus aut fronte circumueniebantur, uel si in proxima euaserant, illis quoque igni correptis, etiam quae longinqua crediderant in eodem casu reperiebant. Postremo, quid uitarent quid peterent ambigui, complere uias, sterni per agros; quidam amissis omnibus fortunis, diumi quoque uictus, alii caritate suorum, quos eripere nequiuerant, quamuis patente effugio interiere. Nec quisquam defendere audebat, crebris multorum minis restinguere prohibentium, et quia alii palam faces iaciebant atque esse sibi auctorem uociferabantur, siue ut raptus licentius exercerent seu iussu.
38. Si verificò poi un disastro, non si sa se accidentale o per dolo del principe - gli storici infatti tramandano le due versioni - comunque il più grave e spaventoso toccato alla città a causa di un incendio. Iniziò nella parte del circo contigua ai colli Palatino e Celio, dove il fuoco, scoppiato nelle botteghe piene di merci infiammabili, subito divampò, alimentato dal vento, e avvolse il circo in tutta la sua lunghezza. Non c'erano palazzi con recinti e protezioni o templi circondati da muri o altro che facesse da ostacolo. L'incendio invase, nella sua furia, dapprima il piano, poi risalì sulle alture per scendere ancora verso il basso, superando, nella devastazione, qualsiasi soccorso, per la fulmineità del flagello e perché vi si prestavano la città e i vicoli stretti e tortuosi e l'esistenza di enormi isolati, di cui era fatta la vecchia Roma. Si aggiungano le grida di donne atterrite, i vecchi smarriti e i bambini, e chi badava a sé e chi pensava agli altri e trascinava gli invalidi o li aspettava; e chi si precipita e chi indugia, in un intralcio generale. Spesso, mentre si guardavano alle spalle, erano investiti dal fuoco sui fianchi e di fronte, o, se alcuno riusciva a scampare in luoghi vicini, li trovava anch'essi in preda alle fiamme, e anche i posti che credevano lontani risultavano immersi nella stessa rovina. Nell'impossibilità, infine, di sapere da cosa fuggire e dove muovere, si riversano per le vie e si buttano sfiniti nei campi. Alcuni, per aver perso tutti i beni, senza più nulla per campare neanche un giorno, altri, per amore dei loro cari rimasti intrappolati nel fuoco, pur potendo salvarsi, preferirono morire. Nessuno osava lottare contro le fiamme per le ripetute minacce di molti che impedivano di spegnerle, e perché altri appiccavano apertamente il fuoco, gridando che questo era l'ordine ricevuto, sia per potere rapinare con maggiore libertà, sia che quell'ordine fosse reale.
L'incendio, scrive lo storico, dovuto al caso o alla perfidia dell'imperatore - le fonti tramandano entrambe le versioni - fu il più grave ed il più violento che si sia mai abbattuto sulla città. Il fuoco ebbe inizio nel Circo Massimo, dilagò poi nella pianura e per le vie strette e tortuose dei quartieri vecchi: alla fine risultarono completamente distrutte 3 delle 14 regioni in cui era suddivisa la città e ben 7 altre furono gravemente danneggiate.
XXXIX. Eo in tempore Nero Antii agens non ante in urbem regressus est quam domui eius, qua Palatium et Maecenatis hortos continuauerat, ignis propinquaret. Neque tamen sisti potuit quin et Palatium et domus et cuncta circum haurirentur. Sed solacium populo exturbato ac profugo campum Martis ac monumenta Agrippae, "hortos quin etiam suos patefecit et subitaria aedificia extruxit quae multitudinem inopem acciperent; subuectaque utensilia ab Ostia et propinquis municipiis pretiumque frunienti minutum usque ad ternos nummos. Quae quamquam popularia in inritum cadebant, quia peruaserat rumor ipso tempore flagrantis urbis inisse eum domesticam scaenam et cecinisse Troianum excidium, praesentia mala uetustis cladibus adsimulantem.
39. Nerone, allora ad Anzio, rientrò a Roma solo quando il fuoco si stava avvicinando alla residenza, che aveva edificato per congiungere il Palazzo coi giardini di Mecenate. Non si poté peraltro impedire che fossero inghiottiti dal fuoco il Palazzo, la residenza e quanto la circondava. Per prestare soccorso al popolo, che vagava senza più una dimora, aprì il Campo di Marte, i monumenti di Agrippa e i suoi giardini, e fece sorgere baracche provvisorie, per dare ricetto a questa massa di gente bisognosa di tutto. Da Ostia e dai comuni vicini vennero beni di prima necessità e il prezzo del frumento fu abbassato fino a tre sesterzi per moggio. Provvedimenti che, per quanto intesi a conquistare il popolo, non ebbero l'effetto voluto, perché era circolata la voce che, nel momento in cui Roma era in preda alle fiamme, Nerone fosse salito sul palcoscenico del Palazzo a cantare la caduta di Troia, raffigurando in quell'antica sciagura il disastro attuale.
E' ancora Tacito a riferirci (Ann. XV, 39) che Nerone durante l'incendio si trovava ad Anzio e che non fece ritorno all'Urbe finchè il fuoco non si avvicinò al suo palazzo, con il quale aveva collegato i giardini di Mecenate con il Palatino. Tuttavia non riuscì ad impedire che le fiamme distruggessero il Palatino, il suo stesso palazzo ed ogni altra cosa intorno.
Mentre Roma bruciava e si andava diffondendo il sospetto che l'incendio fosse stato causato dall'imperatore stesso, Nerone si godeva lo spettacolo delle fiamme dalla torre di Mecenate, cantando la distruzione di Troia con indosso un costume teatrale, come riferisce Svetonio (Nero, 38). Anche Tacito conferma la notizia: "Troianum excidium ... cecinisse".