Svetonio

Vita di Nerone, XXXVIII

 

Nerone dà alle fiamme Roma

38 Non risparmiò né il popolo né le mura della sua patria. Una volta che un tale, nel mezzo di una conversazione generale, disse: «Quando sarò morto, la terra si mescoli con il fuoco,» egli lo interruppe gridando: «Anzi, mentre sono vivo!» e realizzò pienamente questa sua aspirazione. In realtà, con il pretesto che era disgustato dalla bruttezza degli antichi edifici e dalla strettezza e sinuosità delle strade, incendiò Roma e lo fece così apertamente che molti ex consoli, avendo sorpreso nei loro possedimenti alcuni suoi servi di camera con stoppa e torce tra le mani, non osarono toccarli, mentre alcuni magazzini di grano, che occupavano presso la «Casa dorata» un terreno da lui ardentemente desiderato, furono abbattuti con macchine da guerra e incendiati perché erano stati costruiti con muri di sasso. Il fuoco divampò per sei giorni e sette notti, obbligando la plebe a cercare alloggio nei monumenti pubblici e nelle tombe. Allora, oltre ad un incalcolabile numero di agglomerati di case, il fuoco divorò le abitazioni dei generali di un tempo, ancora adornate delle spoglie dei nemici, i templi degli dei che erano stati votati e consacrati sia al tempo dei re, sia durante le guerre puniche e galliche e infine tutti i monumenti curiosi e memorabili che restavano del passato. Nerone contemplò questo incendio dall'alto della torre di Mecenate e affascinato, come diceva, dalla bellezza della fiamma, cantò la a Presa di Troia», indossando il suo costume da teatro. E per non lasciarsi sfuggire l'occasione di afferrare tutto il bottino e le spoglie che poteva, promise di far togliere gratuitamente i cadaveri e le macerie e non permise a nessuno di avvicinarsi a ciò che restava dei suoi beni; poi, non contento di ricevere contributi in denaro, ne sollecitò e ridusse quasi alla rovina le province e i privati cittadini più facoltosi.

Testo originale

XXXVIII. Sed nec populo aut moenibus patriae pepercit. Dicente quodam in sermone communi: Emou thanontos gaia michtheto pyri, immo, inquit, emoy zontos, planeque ita fecit. Nam quasi offensus deformitate ueterum aedificiorum et angustiis flexurisque uicorum, incendit urbem tam palam, ut plerique consulares cubicularios eius, cum stuppa taedaque in praediis suis deprehensos, non attigerint; et quaedam horrea circa domum Auream, quorum spatium maxime desiderabat, ut bellicis machinis labefacta atque imflammata sint, quod saxeo muro constructa erant. Per sex dies septemque noctes ea clade saeuitum est, ad monumentorum bustorumque diuersoria plebe compulsa. Tunc praeter immensum numerum insularum domus priscorum ducum arserunt hostilibus adhuc spoliis adornatae, deorumque aedes ab regibus ac deinde Punicis et Gallicis bellis uotae dedicataeque, et quidquid uisendum atque memorabile ex antiquitate durauerat. Hoc incendium e turre Maecenatiana prospectans laetusque flammae, ut aiebat, pulchritudine Halosin Ilii in illo suo scaenico habitu decantauit. Ac ne non hinc quoque quantum posset praedae et manubiarum inuaderet, pollicitus cadauerum et ruderum gratuitam egestionem, nemini ad reliquias rerum suarum adire permisit; conlationibusque non recepitis modo uerum et efflagitatis prouincias priuatorumque census prope exhausit.