Oltre al presunto rifiuto della schiavitù, c’è stato, tra gli storici moderni, anche chi ha attribuito ai Cristiani delle origini l’intenzione di collettivizzare l’economia, abolendo la proprietà privata, come se il Cristianesimo dei primi secoli fosse una sorta di sbocco naturale del socialismo antico.
Questa ipotesi si scontra con la realtà storica: fra i primi Cristiani, non pochi avevano infatti patrimoni notevoli e l’atteggiamento nei confronti della proprietà privata e del denaro appare evidente dalla costituzione di banche cristiane, fra le quali era famosa quella del ricco Carpoforo, che venne fatta fallire dalle manovre di un gruppo di ebrei.
Se, dunque, i Cristiani erano ben inseriti un po’ a tutti i livelli nella società romana, non potevano che esserlo anche nel sistema economico: in qualche caso erano tanto ben inseriti che alcuni cristiani erano tentati di mettere da parte l’onestà per lasciarsi guidare unicamente dall’avidità di guadagno.
A prescindere da questi casi limite, tuttavia, la Chiesa raccomandò sempre che ciascuno si trovasse un lavoro per mantenersi (chiara a questo proposito l’esortazione paolina: “Chi non vuole lavorare neppure mangi”).
Accanto alla precisa volontà di far lavorare tutti, la Chiesa delle origini, per motivi di carattere morale, incoraggiava l’esercizio di determinate attività e scoraggiava quello di altre, che apparivano più o meno incompatibili con la professione della fede cristiana: la valutazione cristiana delle occupazioni era dunque nettamente diversa rispetto a quella dei pagani, specialmente per quanto riguarda le attività manuali, che, disprezzate per tutta l’antichità classica, furono molto rivalutate dal Cristianesimo, non perchè fossero ritenute più importanti o più dignitose, ma soltanto perchè era molto più difficile che potessero nascondere risvolti inaccettabili dal punto di vista religioso e morale.
La professione del mercante era molto apprezzata per la possibilità dei continui spostamenti e della diffusione del Vangelo nelle diverse comunità toccate durante i viaggi, ma esponeva chi la praticava al rischio di essere coinvolto da traffici in qualche modo comportanti il culto idolatrico e alla tentazione di far prevalere l’interesse sulla morale.
Analogo era l’atteggiamento nei confronti delle attività intellettuali: i Cristiani le tenevano in altissima stima, ma ritenevano che esponessero eccessivamente alla contaminazione con il paganesimo, con l’unica eccezione dell’arte medica, praticata dall’evangelista Luca e considerata socialmente utile.
Tertulliano e gli altri esponenti del rigorismo più intransigente proibivano l’insegnamento di qualunque materia non strettamente inerente la religione. La maggior parte dei Cristiani, tuttavia, riteneva di non poter fare a meno di un’istruzione profana e veniva ritenuto lecito insegnare anche ciò che appariva lecito ed anzi utile imparare.
Per quanto riguarda gli attori, sappiamo che Cipriano si impegnò a pagare un vitalizio con le rendite della Chiesa perchè un ex-attore non fosse costretto a vivere insegnando arte drammatica. Analoghe rinunce venivano richieste a quanti esercitavano la professione di mago, di indovino, di custode degli edifici sacri, di lenone o di prostituta.
Meno rigida la posizione nei confronti di pittori e scultori, la cui arte era altamente apprezzata. Gli esattori delle tasse erano considerati peccatori non perchè esercitassero una professione moralmente riprovevole, ma perchè solitamente ne approfittavano per trarne guadagni illeciti.