Se fosse possibile sintetizzare ed esplicitare in una sola immagine tutta l’intensità della fiducia nelle umane capacità espressa da Sofocle nello stasimo dell’Antigone, sarebbe inevitabile pensare alla statua dell’“Apoxyomenos” di Lisippo (nell'immagine): torcendo il busto e volgendo il volto, infatti, esso infrange, per la prima volta nell’arte greca, la rigida posizione frontale per protendersi con le braccia nello spazio accanto a sé, dominandolo.
L’elogio delle possibilità umane intessuto dal tragediografo non è molto dissimile dal pensiero di Euripide, che nelle Supplici cantava, per mezzo di Teseo, le tappe del progresso dell’uomo, dal pensiero che lo distingue dagli animali alle abitazioni adatte a scampare i brucianti raggi del sole. A differenza di quest’ultimo, tuttavia, che considerava l’evoluzione come il risultato dei regali degli dei, Sofocle insiste particolarmente sulla fatica e sull’impegno dell’uomo, utilizzando, non a caso, la diatesi media (edidaxato, imparò da sé): persino la più alta fra gli dei, la Gan akamatan, si piega alla sua volontà. Il progresso dell’anhr pantoporos, creatura deinon che ha pieno possesso sulla realtà e domina con il suo anemoen jronhma gli animali selvaggi, gli uccelli ed i pesci, pare inarrestabile. Egli varca il mare canuto sfidando le onde e soggioga la terra instancabile.
Tutte le sue meravigliose (sojon ti) scoperte e le sue risorse, tuttavia, si risolvono in nulla: l’uomo possiede l’inventiva dell’arte uper elpida, ma non sa scegliere fra bene e male; domina il kosmos, ma è continuamente minacciato dallo jqonos twn qewn - come lo definiva Erodoto – per il suo troppo ardire; ha infine inventato rimedi per malattie prima insanabili, ma su di lui incombe la morte, dalla quale non avrà scampo (ouk epaxetai jeuxin). Lo stasimo è, dunque, non solo un elogio delle capacità dell’essere umano, ma anche e soprattutto un severo monito nei confronti dei suoi strettissimi limiti di brotos.
Sofocle è infatti perfettamente consapevole del fatto che, nonostante tutti i suoi progressi nel campo del vivere civile, l’uomo non ha mai sconfitto la morte, evocata dal poeta nel modo peggiore: è l’Ade da cui non c’è scampo, è l’oscurità da cui Achille, confidando le sue sofferenze ad Odisseo nella “Nekyia”, vorrebbe fuggire (“preferirei essere l’ultimo dei servi di mio padre…"). Euripide, nel passo citato delle “Supplici”, osservava che l’uomo, per rimediare al fatto che sempre “ercetai aporos to mellon”, inventò gli auspici, che tuttavia a nulla servono, perché il brotos non potrà mai essere pari ai daimones: Sofocle, intriso del medesimo pessimismo cosmico caratteristico dell'uomo greco, riassume ed esplicita lo stesso concetto, affermando l’estrema piccolezza della creatura umana di fronte all’annullamento nell’Ade.
E’ significativo il fatto che l’idea di progresso dello Stasimo venga a sovrapporsi (quasi) perfettamente con quella proposta dal Salmo: esso coincide con l’emergere della superiorità dell’intelletto umano sulle bestie “koujonown”, che cadono nelle reti. Tuttavia, mentre il peripradhs anhr osserva la natura che lo circonda e si sente debole ed indifeso, poiché trova scampo dai dardi delle tristi piogge ma non riesce a comprendere né ad evitare il futuro, l’uomo biblico osserva il Creato, vi scorge il disegno del Signore e, benchè si senta infinitamente piccolo rispetto alle dita di Dio, ha la certezza di esistere nei suoi pensieri.
Dio – questo è il nuovo e dirompente messaggio proposto dal Salmo rispetto alla visione del mondo greco – colloca l’uomo al centro dell’Universo e gli dice di non temere: “gli hai dato potere sulle opere delle tue mani,/ tutto hai posto sotto i suoi piedi”.
Il progresso, dunque, non è più solo frutto del lavoro dell’uomo, né esclusivamente dono degli dei, ma nasce dall’incontro delle sue fatiche e dei suoi sforzi con il Progetto divino. Anche la morte - se si trasporta il messaggio veterotestamentario del Salmo in quello neotestamentario dell'annuncio di Cristo agli uomini - può assumere una prospettiva diversa: non è più l’annullamento ed il buio eterno contrapposto alla helioio jaos della vita, la nox perpetua dormienda, ma la confortante promessa della Vita Eterna, promessa che dà insieme significato a tutta l'esistenza terrena. Il Salmo, dunque, offre all’uomo una posizione centrale non più solo all’interno della Polis (in Sofocle il bene ed il male coincidono con il rendere grande la propria città, uyipolis, e la perdita della patria è l’atimia, apolis) ma nell’Universo, creato interamente per lui.
Analogamente a quanto Sofocle afferma nello Stasimo, tuttavia, il progresso anche nella visione del Salmo non è infinito, ma delimitato dalla intrinseca imperfezione dell’uomo: egli mai può rendersi simile a Dio. Ulisse paga con la dannazione, infatti, l’aver osato procedere peran poliou pontou, varcando le Colonne d’Ercole.
L’essere umano, dall’Umanesimo in poi, sembrava aver totalmente dimenticato i suoi limiti di mortale: l’idea di progresso infinito che supera ogni ostacolo venne assolutizzata dal Positivismo di Darwin, Spencer e Comte che, incitati dagli incredibili sviluppi della scienza nel diciannovesimo secolo, credettero che tutto fosse ormai possibile.
L’amara scoperta della realtà, le speranze frustrate e la terribile disillusione ingenerata dai due conflitti mondiali hanno riconfinato l’uomo, prima così sicuro di sé e delle sue capacità, in una dimensione ristretta, in cui ogni risposta viene cercata nel “pensiero debole” e nell’impossibilità di capire il proprio ruolo e la propria finalità, mentre i grandi ideali e le grandi proposte giacciono quasi dimenticati assieme al messaggio cristiano, ritenuto troppo utopistico (o troppo impegnativo?) per essere di nuovo creduto vero.
L’uomo, così, da “poco meno di angelo” che era, avanza da solo sui suoi gracili passi e di nuovo “aporos ep'ouden ercetai to mellon”.