Il rapporto tra uomo e Dio – con la maiuscola nel senso esposto in precedenza a proposito di Mito – si ritrova in uno dei passi di tragedia che in assoluto più apprezzo: i versi 195–218 delle Supplici di Euripide. In una sorta di difesa appassionata della bellezza della vita pur nella sua tragicità (quell’indimenticabile “essere sotto i raggi di luce del sole”, che trovo immagine davvero forte, specie se si pensa che il suo opposto, l’essere nella notte senza tempo della terra che ci ricopre da morti, è così frequente in tutta la poetica greca), Euripide non si può trattenere dal ricordare che i molti talenti dell’uomo e le prodigiose invenzioni che ne derivano sembrano non bastare mai e “spinti dalla tracotanza pensiamo di essere più saggi degli dei”.
Fragile è la vita umana nel suo succedersi di giorni, e cieco (o meglio da se stesso accecato) è l'uomo quando non comprende i suoi limiti nei confronti di un destino (o di una divinità) invidiosa dei suoi successi: questo è il pensiero che emerge dalla lettura dell'episodio di Creso e Solone nel libro I delle Storie di Erodoto: "E l'altro [Solone] gli replicò: "Creso, interroghi sulle vicende umane me, che so che la divinità è davvero invidiosa e facilissima da turbare. In un lungo periodo di tempo, infatti, sono possibili molte cose che non si vorrebbero, e soffrirne, anche, molte. Io, infatti, pongo a settant'anni il limite della vita per un uomo. Questi 70 anni significano 25200 giorni, non tenendo conto del mese; se invece vuoi che un anno ogni due diventi più lungo per l’aggiunta di un mese, perchè le stagioni si presentino nel momento appropriato, i mesi intercalari nel corso di 70 anni sono 35, ed i giorni di questi mesi 1050. Di tutti questi giorni che ci sono in 70 anni, che sono 26250, nessuno porta alcunché di uguale ad un altro. Stando così le cose, Creso, l'uomo è completamente in balia del destino (Storie, I, 32, 1)".
Diceva Solone (Frag. 14 West) delle umane sorti, a paragone del divino così imperscrutabile nella poetica immagine del sole che passa alto e lontano: "E beato non è alcuno degli uomini, ma disgraziati tutti, quanti mortali il sole osserva dall'alto".
Che la vita dell'uomo sia essenzialmente sofferenza - e che dalla sofferenza l'uomo debba imparare (il pathei mathos dell'Agamennone di Eschilo), benchè quest'ultima sia generata non solo dall'errore (amartema ) dell'individuo quanto piuttosto da un intrecciarsi di questo con l'invidia degli dei (fthonos theon) che sconvolge ogni stabilito progetto - è concetto intrinseco alla rappresentazione tragica greca e, come tale, accettato dagli stessi spettatori. Eppure, ogni volta si rinnova in essi la sofferenza di assistere alle sciagure che abbattono eroi che quasi inconsapevolmente ( o quanto meno ciecamente ) vanno incontro alla propria rovina, spesso prefigurando con le proprie sventurate parole ( in una amara ironia metateatrale ) il destino che li attende. E nella sofferenza del pubblico si rinnova la catarsi, la purificazione dell'animo che ha anche il compito di stornare dalla polis le tremende sventure che vengono rappresentate sulla scena, attraverso appunto l'aver appreso nella sofferenza la sorte che spetta a "chi per troppo osare commette il male". "Inatteso giunge questo dolore ... Vi sarà suono di pianti e scorreranno molte lacrime. Le storie luttuose dei grandi commuovono maggiormente": così il Coro si rivolge agli spettatori nell'Ippolito di Euripide (1462-66).
I progetti degli uomini, commenta Euripide, ben poche volte riescono ad andare a compimento secondo la loro volontà: più spesso sono turbati dalle trame divine, contro le quali gli uomini nulla possono. Ed a volte l'errore (consapevole, come per Creonte nell'Antigone di Sofocle, od inconsapevole, come per il suddetto Edipo) - come accennato - non fa altro che accelerare il percorso verso la catastrofe, che tuttavia era già segnata in partenza. "Ciò che è atteso non si avvera e per quello che non è atteso un dio trova la strada": questo il pensiero espresso ad esempio nella Medea (Eur., Medea, 1417-8). Non a caso Euripide - imbevuto di tutte dispute filosofiche che animarono Atene - dei tre tragediografi greci è sicuramente il più disincantato e vicino alla nostra sensibilità, lui che (leggenda vuole) si ritirava in una caverna affacciata sul mare per comporre i suoi drammi, tanto da essere tacciato dai suoi contemporanei di ateismo ed empietà. Rinuncia infatti alla visione Sofoclea di una divinità giusta nella sua imperscrutabilità (ma con il paradosso di rappresentarne sulla scena le gratuite crudeltà e le sofferenze inflitte ad uomini innocenti) per chiedersi invece se gli dei esistano o siano invece "aeree fantasie" come il fantasma (eidos, immagine creata dal pensiero) di Elena nell'omonima tragedia (Eur., Elena, 35). Se possibile, la sua visione si può riassumere in questi versi, ancora dell'Elena (18-25): "La mia patria, Sparta, è una terra non priva di fama, e Tindaro è mio padre; tuttavia esiste una leggenda: che Zeus volò da mia madre Leda, dopo aver assunto le sembianze di un uccello, un cigno, che compì l'unione ottenuta con l'inganno, cercando di sfuggire all'inseguimento di un'aquila, se la storia è vera. Elena è il mio nome: dirò dei mali che ho sofferto". Non si può sapere se gli dei esistano o meno (è l'influenza di Anassagora?), tuttavia la sofferenza dell'uomo - qualunque la sua causa - permane.
Nel mondo latino, significative sono le posizioni nei confronti del divino di Seneca e S. Agostino, egregiamente accostate e confrontate in Dall'autosufficienza all'abbandono in Dio, Antologia senecana - agostiniana, a cura di L. Ghiringhelli. In particolare Seneca si sofferma su questo argomento nelle Naturales Quaestiones (Nat. Q. 7, 30): "dice molto bene Aristotele che mai dobbiamo mostrare maggior rispetto di quando si tratta degli dei... Ed infatti dio non ha fatto tutto per l'uomo. Quanta piccola parte di un'opera tanto vasta ci è riservata? Persino colui che regge quest'universo, che l'ha fondato, che ha dato origine a tutto ciò e se ne è circondato ed è la parte maggiore e migliore della sua opera, sfugge ai nostri occhi; dobbiamo vederlo con il pensiero".
Pensiero antropomorfico nei confronti della divinità (concepita come proiezione del sentire umano) ebbe Senofane, che in suo celebre frammento esclama: "Ma se i buoi o i cavalli o i leoni avessero le mani, così da scrivere con le mani e compiere imprese quali compiono gli uomini, disegnerebbero immagini di dei i cavalli simili ai cavalli, i buoi simili ai buoi e farebbero certo corpi tali quali ciascuno di loro possiede". Tuttavia tale divinità, secondo un altro suo frammento, deve essere anche "Un solo dio, e grandissimo fra uomini e dei, per niente simile ai mortali per aspetto né modo di pensare".
Il confronto con la divinità si traduce a volte, nelle sue molteplici forme, in desiderio di immortalità, che scaturisce proprio dalla percezione della fragilità della vita umana, soprattutto in relazione alla imperscrutabile ed apparentemente immutabile potenza dei numi: il vertice più alto di questo sentire è toccato – a mio avviso – da Orazio nell’ode III, 30, dove afferma di aver costruito un monumento più duraturo del bronzo e più alto della mole regale delle piramidi. Grazie all’arte che ne preserverà il nome in eterno – e leggendo questi versi dobbiamo riconoscere che ebbe ragione – il poeta quasi sottrae se stesso al fluire della sabbia del tempo ed alla caducità della sua esistenza e si solleva ad un piano che – se non divino – è molto più che terreno.