Solo pochi decenni separano l’ultima opera di Aristofane, il “Pluto”, dall’esordio teatrale di Menandro con l’”Orgè”: eppure questo breve lasso di tempo fu foriero, per tutta la Grecia e per Atene in particolare, di conseguenze tanto traumatiche che le opere dei due commediografi risultano profondamente diverse, soprattutto nei contenuti.
Fu proprio la città di Atene a subire i danni maggiori, anche dal punto di vista psicologico, ed i suoi cittadini più sensibili – gli intellettuali – ne rimasero sconvolti: in pochissimi anni si è rivelata loro la limitatezza e la piccolezza dell’uomo; la tuch, che diverrà non a caso la protagonista indiscussa delle commedie menandree, ha ridotto la capitale culturale dell’Ellade intera, la padrona dei mari, la democrazia in cui vige la libertà, ad un protettorato dei Macedoni, sottoposta al governo dello straniero.
Il commediografo, che dovette assistere impotente al ridimensionamento della sua polis e subire di persona i catastrofici effetti del rovesciamento di Demetrio Falereo, suo amico e protettore, riflette dunque nelle sue opere una nuova e triste visione della realtà: non c’è più spazio per l’esuberanza, la vitalità, la forza, la sicurezza e persino per la spavalderia che rasenta i limiti dell’ubris, come accadeva per Diceopoli, cui era sufficiente la potenza della parola – così egregiamente padroneggiata da Aristofane – per abbattere tutti i suoi nemici; non v’è più motivo di pungere avversari personali e personaggi pubblici, né di descrivere l’animata vita dell’agorà o della bulè: dalla dimensione politica, riguardante cioè la comunità nella sua interezza, si passa a quella più modesta e sommessa della casa e del nucleo familiare.
Non ha più alcun senso la parabasi, in cui il coro discute con gli spettatori dei problemi di attualità, perché ormai l’”attualità” è imposta dallo straniero e non è più il frutto dell’assemblea dei cittadini.
Ecco che, allora, l’uomo ricorre, per salvarsi dallo sfacelo della sua città, all’unico strumento rimastogli, la ragione. Vengono pertanto eliminati dalle commedie tutti gli elementi dell’inverosimile e del fantastico aristofanesco, che stonerebbero con il sobrio realismo cui si cerca di dar vita. Menandro salva, invece, l’uomo, dopo averlo però totalmente spogliato della sua patina di “invincibilità”.
Il pensiero del commediografo ( “Ws carien est’anqrwpos” ) però è ben lontano dalla forza di quello di Sofocle, che affermava convinto: “Molte sono le cose deina, ma nulla è deinoteron anqrwpou”.
Deinos è il termine tecnico della retorica per indicare la meraviglia e lo stupore che un discorso può suscitare negli spettatori: è il riflesso della fiducia che tutta un’epoca aveva riposto nelle capacità dell’uomo e della sua parola. Anche la postilla menandrea, infatti, sembra il compianto di un tempo migliore: “Che bella cosa è l’uomo, quando è uomo davvero”, pare infatti evocare i tempi in cui il poliths ateniese si sentiva padrone del mondo.
Nella nuova Atene menandrea, dunque, che appare quasi vuota in confronto a quella caotica e viva di Aristofane, una volta scomparsi i grandi “nemici”, come Cleone o Lamaco, l’ambiente domestico ed appartato, usato nelle ambientazioni, suggerisce quasi spontaneamente l’analisi psicologica, che, tuttavia, rimane alquanto superficiale.
Non a caso, infatti, Menandro è stato accusato di essersi lasciato troppo influenzare dagli stereotipi proposti dai “caratteri” di Teofrasto, forse per ricondurre al razionale – grazie a questi topoi –anche ciò che sfugge ad uno schema preciso: è probabilmente per questo motivo che l’Atene di Menandro, che dovrebbe essere più realistica di quella apertamente “fantastica” di Aristofane , appare ugualmente artificiale.
Addentrandosi, dunque, nell’introspezione psicologica e nella vita cittadina, si incontra il “rispetto”: il termine stesso utilizzato per indicarlo non può però fare a meno di suscitare il senso di oppressione della “società dell’ aidws” omerica; si parla poi di autocontrollo dei personaggi proprio per contrapporsi deliberatamente alla sfrenatezza esasperata di Aristofane. Si parla infine di jilanqropia – nelle commedie di Menandro persino le etere talvolta si ravvedono e sono pronte ad aiutare il protagonista – per non cadere nello sconforto della solitudine, dopo la scomparsa della dimensione sociale della polis.
Ecco, allora, l’immagine di una città inevitabilmente “sospesa” e cristallizzata in questa dimensione ideale, in cui tutti cercano di trovare un’armonia ed inseguono un accordo, perché – perso ogni potere sulla realtà esterna – essi possano almeno mantenere un lucido dominio su di sé (swjrosunh).
A Menandro, tuttavia, non poteva sfuggire l’amara verità, che continua a riaffiorare in tutte le sue commedie, almeno per quanto siamo in grado di ricostruirle. Le trame complesse, l’accavallarsi confuso e convulso di ritrovamenti ed anagnwriseis e gli scambi di identità lasciano infatti trasparire l’assoluta mancanza di ordine e sicurezza e denunciano apertamente che l’uomo, per salvarsi dal crollo della sua polis, si è rifugiato in una dimensione strettamente privata, ma non è riuscito a sfuggire alla tuch beffarda.
Il commediografo stesso si accorge, con sgomento, che l’essere umano ha perduto l’apparente controllo sul proprio destino. L’umorismo delle sue opere, dunque, è molto più contenuto di quello aristofanesco, tanto che – in alcuni passi – rasenta la malinconia.
Menandro non fu molto amato dai suoi spettatori, se è vero che, nonostante una produzione di più di cento commedie, vinse solo otto volte: gli Ateniesi dovettero forse accorgersi di quanto fosse amaro veder rappresentata la propria disgrazia, di quanto fosse doloroso correre con il ricordo ai tempi – non lontani – in cui ancora la loro polis esercitava una vera e propria egemonia su tutta la Grecia e di quanto costasse infine confrontare quell’ampio impero con la sconfortante ristrettezza dell’ambiente domestico.
Andrea Zoia