Senso del divino e giustizia

    Storici autorevoli hanno affermato in passato che lungo tutte le Storie si sovrapponessero due visioni del divino: una prima – più moderna – vuole che gli dei siano gli imperturbabili garanti della giustizia e della morale. Una seconda, figlia della tradizione, vuole invece che gli dei siano attraversati da passioni e pulsioni tipicamente umane (egoismo, dispotismo, gelosia, invidia…), che si evidenziano nel fatto che questi ultimi non permettano che il mortale in definitiva possa essere “felice e fortunato”. Inoltre i più sottolineavano il fatto che questa seconda teoria in generale prevalesse sulla prima.

Una rivisitazione delle Storie (cfr. Pohlenz), tuttavia, ha portato ad affermare che l’agire divino nell’opera dello storico è sempre volto alla giustizia e che ogni invidia è assente. Tale linea di pensiero è oggi maggioritaria ed è giustificata dell’esegesi del testo di Erodoto. E’ opportuno infatti notare che, se da un alto la divinità (o qeos) è sicuramente severa ed esigente (a volte ai limiti della primitività per la sua totale assenza di un sentimento di pietà), non di meno manca in essa un deliberato uso del capriccio come motore delle proprie azioni nei confronti degli inermi mortali. L’azione divina, che segue le sue regole ancestrali ed immutabili, appare dunque sempre giusta agli occhi dello storico, benchè indubbiamente talora sconcertante per il lettore d’oggi.

Quale prima prova a supporto di questa interpretazione si potrebbero addurre gli episodi in cui la divinità interviene per punire i delitti commessi da uomini contro altri uomini: benché non tutti i logoi delle Storie si concludano con la punizione del colpevole, permane sottesa nel lettore la sensazione che un castigo ci sarà, quasi come da principio generale. Ad esempio, Erodoto racconta (VII, 133-137) che gli araldi Persiani inviati a Sparta e ad Atene furono uccisi e per questo l’ira di Taltibio si ritorse sugli Spartani: lo storico quindi aggiunge di non essere in grado di riferire la disgrazia che toccò ad Atene, ma sottintende di sapere che anche quest’ultima città avrebbe ricevuto il suo giusto castigo. E’ solo la sua carenza di informazione a celargli l’esatto esito dell’episodio.

Nello stesso contesto di “delitto seguito da castigo” si colloca l’episodio in cui Ciro il Grande afferma di sapere che – qualora uccidesse Creso – sarebbe poi punito, non per il fatto che Creso è protetto dalla divinità (come sarà chiaro solo in seguito), ma proprio per aver ucciso un altro uomo: “I Persiani occuparono dunque Sardi e catturarono lo stesso Creso […] Ciro, dunque, udito dagli interpreti quello che Creso aveva detto [Scil: l’invocazione a Solone, che aveva predetto a Creso che le sue ricchezze non gli avrebbero garantito la felicità], cambiando opinione e ritenendo che – lui stesso uomo – stava per dare alle fiamme un altro uomo che era stato non inferiore a lui stesso quanto a fortuna e  temendo inoltre il castigo divino (per aver compreso che nulla tra le cose umane è sicuro), ordinò di spegnere immediatamente il fuoco che ardeva e di far scendere Creso e quanti erano con lui (I, 86, 6)”.

Questo è anche il pensiero riportato ad esempio nel sogno di Ipparco: “Nessun uomo che abbia commesso ingiustizia potrà evitare di pagarne la colpa (V, 56)”.

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