La sorella , la “consanguinea” (1), come la definisce Antigone stessa, l’unico ed ultimo legame familiare della protagonista, è accomunata a lei nella sventura di appartenere alla stirpe di Edipo. “Carissima” è chiamata da Antigone, ed è subito chiamata a dimostrare di non essere “figlia degenere di nobili genitori” (35).
Ma Ismene non ha la tempra di Antigone ed esita subito (37, 39, 42 e 44), ponendo ad Antigone una serie di domande e non promettendole di slancio il suo aiuto come la sorella sperava.
Al contrario di Antigone, che non si comporta come la classica donna greca, sottomessa ai voleri dell’uomo, sarà proprio Ismene a ricordare ad Antigone che “le donne non sono capaci di tenere testa agli uomini “ e che le donne “sono governate dai più forti” e che dunque è “loro dovere obbedire a questi ordini e ad altri ancora più ingrati” (58 – 64)
Ismene è quindi consapevolmente sofferente per l’ingiustizia che stanno subendo, ma è priva di coraggio per reagire (72).
Suscita quindi lo sdegno della sorella che l’accusa di cercare pretesti ( v 80 ) e la definisce “odiosa” (85).
Ismene conclude il colloquio con la sorella, definendo per due volte “impossibile” quanto la sorella ha in mente di compiere (90 e 95).
Dopo il confronto con Antigone, Ismene viene condotta al cospetto di Creonte: sembra avere un sussulto di orgoglio, assumendosi la propria parte di responsabilità (537) e chiedendo ad Antigone di “lasciarla morire, lasciarle venerare il morto insieme” (544).
Quando infine Antigone viene condannata e portata via, Ismene nella sua pavidità può solo constatare: “che vita mi resta, sola, senza di lei?” (667).
In queste parole c’è tutta la solitudine della vita che l’attende, senza nessun legame di sangue superstite e con il presunto disonore di appartenere ad una stirpe macchiata da orribili delitti.