E’ la protagonista che dà il nome alla tragedia. Entra in scena per prima, in un drammatico dialogo con la sorella Ismene. E’ forte e sicura di sè e sembra quasi che le sciagure che si sono abbattute sulla sua famiglia si siano state linfa per la sua fierezza. Sente tutta l’ingiustizia contenuta nel decreto di Creonte che impedisce la sepoltura del fratello Polinice, perchè traditore della sua patria, Tebe. Ma il suo legame di sangue e di sventura con il fratello è più forte della legge umana di Creonte. Vorrebbe che la sorella si mostrasse “nobile” e non “figlia degenere di nobili genitori” (35).
Antione è tutta pervasa dalla fierezza di compiere la cosa giusta: “cara a lui che mi è caro giacerò, per un santo crimine” (67). Da notare l’ossimoro, impiegato per indicare che Antigone ha violato una legge umana per osservare una norma divina.
Si mostra delusa dalla sorella e la tratta con sdegno: “cerca pure dei pretesti” (80), “metti in salvo il tuo destino” (84), “tanto più mi sarai odiosa con il tuo silenzio, se non lo proclamerai davanti a tutti” (87).
Ritroviamo poi Antigone, che è stata nel frattempo scoperta a ricoprire di terra il corpo di Polinice, quando viene affrontata da Creonte. Sostiene ancora con forza e con fierezza le sue motivazioni: “gli dei non hanno sancito per gli uomini queste leggi (quelle di Creonte, che impedivano la sepoltura)” (448 – 460). Sfida Creonte, dicendogli che i Tebani lo temono e che solo per questo motivo non osano ribellarsi alla sua legge, che pure ritengono ingiusta, e mostrare di apprezzare il gesto di Antigone (502).
A Creonte che la rimprovera di tributare ai giusti (cioè Eteocle) gli stessi onori dei criminali (cioè Polinice) Antigone risponde: “chi può dire se tra i morti questa legge è santa?” (523) e “io sono fatta per condividere l’amore, non l’odio” (527).
Segue un confronto serrato con la sorella impaurita, Ismene, ma Antigone la rifiuta come corresponsabile e le dice: “non ti appropriare di ciò che non hai neppure sfiorato. La mia morte basterà”. E poco dopo aggiunge: “tu hai scelto di vivere, io di morire” (544 e 555).
Antigone ricompare poi sulla scena ormai prigioniera, attorniata dai servi di Creonte. All’avvicinarsi della morte è sempre più fiera, ma un po’ meno sicura di sè, perchè rimpiange quanto non potrà mai più avere: il matrimonio con Emone, figlio di Creonte (807–815). Si paragona a Niobe, che venne tramutata in pietra, perchè sa che verrà sepolta viva in una grotta (821).
Si rivolge dunque ai Tebani, chiamandoli a testimoni che una legge “inaudita” l’attende e le sue spoglie rimarranno “illacrimate” (845–855): “ma infelice, non fra i vivi, non fra i morti accolta sarò” (850–855).
Nei versi seguenti (846 e segg.) troviamo forse per la prima volta l’Antigone più umanamente colpita dal destino che sta per travolgerla, lo stesso destino che ha annientato la sua famiglia, ed ella piange la sua sorte, definendosi “disgraziata”, “maledetta” ed affermando “senza amici, senza compianto, senza imenei a questo viaggio imminente infelice sono tratta”.
Antigone sembra ora quasi abbandonarsi al suo tristissimo destino e perdere tutta la sua fierezza, quando (892 e segg.) si rivolge alla sua tomba dicendo che in quel momento la sua unica consolazione (e speranza) è che il suo arrivo fra i morti rallegrerà il padre, la madre ed il fratello. Tuttavia Antigone ritrova tutto l’orgoglio perduto quando (905) afferma, parlando idealmente al fratello Polinice, che “fu giusto l’onore che ti resi, almeno agli occhi di chi ha la mente retta”.
Il legame fraterno è per Antigone insostituibile, perchè, dice, essendo morti padre e madre, nessun fratello ella potrà mai più avere.
Ormai al termine della sua presenza in vita (917), Antigone si chiede ancora: “ho forse violato la legge divina?”, ribadendo la sua certezza di aver obbedito alla legge più importante per gli uomini; e ancora: “a chi domanderò aiuto, se per la mia pietà mi sono guadagnata il nome di empia?” (920).
Le ultime parole di Antigone sono quasi un grido, forte e deciso, che ribadisce tutto il suo carattere inflessibile: “o Tebe, città dei miei padri, o dei aviti, mi trascinano via e più non posso tardare. Guardate, o principi tebani, quale sopruso, e da quali uomini, subisco, io, dei vostri re ultima figlia, solo perchè onorai la pietà” (937–940).
Singolare è il fatto che Antigone concentri tutta la propria attenzione sul fratello traditore Polinice, che giace insepolto, e non sparga una lacrima od una parola di compianto anche sul fratello “buono”, Eteocle: ella forse intimamente piange entrambi, ma tutto il suo gesto di sfida si basa sul sovvertimento della legge umana di Creonte, a favore della legge divina non scritta.
Di Antigone la più bella descrizione nella tragedia è quella che di lei fa la guardia: “scorgemmo la ragazza, che emetteva gemiti acuti, come un uccello desolato, che trovi il suo nido vuoto, predato dei pulcini. Così anch’ella quando vide il cadavere messo a nudo scoppiò in lacrime, scagliando imprecazioni contro gli autori di tale sacrilegio” (420).