Nell’estate del 260 Valeriano fu sconfitto e catturato dal re persiano Sapore II e suo figlio Gallieno, probabilmente in disaccordo col padre già fino dal 257, non tentò nemmeno di liberarlo e, una volta rimasto padrone unico dell’impero, sconfessò immediatamente la sua politica religiosa.
Si discute ancora se l’imperatore si limitò ad assumere un atteggiamento di tacita tolleranza nei confronti dei Cristiani, oppure, come sostiene anche la Sordi, riformò interamente la legislazione romana a proposito di questi ultimi, emanando un editto che rendeva lecito formalmente il Cristianesimo: è questa l’ipotesi più probabile.
Il testo dell’editto ci è giunto solamente in forma indiretta, conservatoci attraverso la Storia Ecclesiastica di Eusebio (HE 7,13) che tramanda il testo del rescritto di Gallieno a Dionigi di Alessandria ed ai vescovi d’Egitto: il rescritto fa riferimento all’inizio dell’anno 262, quando l’imperatore riuscì a riprendere il controllo della zona dell’Egitto, precedentemente caduta nelle mani di alcuni usurpatori. L’editto era destinato ad estendere anche a questa regione i benefici da lui concessi “già da molto tempo”, fra i quali annoverava soprattutto la restituzione ai vescovi dei luoghi di culto sequestrati in seguito agli editti di Valeriano.
A partire da questo momento, dunque, l’imperatore si rivolgeva direttamente alla Chiesa ed ai suoi membri, riconoscendoli come persone giuridiche ed accettando le comunità cristiane come soggetti di diritto : si trattava della fase conclusiva di una lunga maturazione che era passata attraverso molteplici fasi intermedie. Prima di essere legalmente riconosciute, infatti, alcune chiese si erano fatte accettare dallo stato come istituzioni legali, grazie alla veste di “società di mutuo soccorso” che avevano indossato per sfuggire alle persecuzioni ed all’ostilità popolare.
A proposito del governo di Gallieno e del suo rapporto con i Cristiani è particolarmente significativa la lettera di Dionigi di Alessandria ad Ermammone: la vittoria dell’imperatore “vecchio e nuovo” viene sentita come il simbolo della palingenesi che, dopo la crisi, ritrova la pace nella giustizia in terra.
Durante i quarant’anni che intercorrono fra l’editto di Gallieno e l’ultima persecuzione di Diocleziano, l’impero rifiorì rigoglioso grazie ad una proficua pace, sebbene garantita con la forza: gli Alamanni furono sconfitti a Milano, i Persiani di Sapore furono fermati da Odenato di Palmira e le rivolte di Emiliano e dei Macriani furono stroncate. In questo periodo i rapporti di coesistenza pacifica tra Cristiani ed impero furono tanto sorprendentemente buoni che il Cristianesimo parve essere diventato quasi una religio licita.
Questa benevolenza nei confronti del Cristianesimo fu favorita indubbiamente dal sincretismo del “summus deus”, molto gradito agli imperatori di questo periodo e associato nell’iconografia all’immagine del sole, che riusciva apprezzabile anche per i Cristiani stessi: era il simbolo del cosiddetto Sol Iustitiae.
A riprova di questo fatto, Tertulliano definiva “plane humanius ac verisimilius” l’errore di quanti, fraintendendo il nome della domenica (dies solis), credevano che i Cristiani adorassero il sole (Apol. XVI,8).