Il primo atto che vide il confronto diretto fra Cristianesimo ed Impero Romano fu, innegabilmente, la condanna a morte di Gesù da parte del procuratore Ponzio Pilato, avvenuta il 7 aprile dell’anno 30 o, secondo altri storici (Lemonon), il 27 aprile del 31 . Oggi, tuttavia, sappiamo, grazie ad un’iscrizione, che la carica effettiva rivestita da Pilato era quella di prefetto di Giudea.
Sia le fonti neotestamentarie che quelle antiche non cristiane, tuttavia, sono unanimi nell’affermare che la responsabilità della condanna a morte di Gesù sia da attribuire interamente ai Giudei, benché venga ammesso che fu il governatore romano (Pilato) a farla infine eseguire, dato che il sinedrio non aveva il diritto di emettere sentenze che comportassero la pena capitale, come testimonia anche Tacito : Christus Tiberio imperitante per procuratorem Pontium Pilatum supplicio adfectus erat (Tac. Annales XV,44).
Il fatto che Pilato agì solo controvoglia, temendo le conseguenze di un suo rifiuto, è pienamente confermato anche dai testi cristiani (Matteo 27,22 : Pilato replicò : “cosa ha fatto di male ?”...Quando vide che non poteva far niente e che anzi la gente si agitava ancora di più, Pilato si fece portare un po’ d’acqua, si lavò le mani e disse : “Io non sono responsabile della morte di quest’uomo ! Sono affari vostri !”).
Riguardo al processo, la nostra fonte cristiana più preziosa rimane Giovanni (Gv. 18,31) : “Pilato replicò : portatelo via e giudicatelo voi come la vostra legge prescrive. Ma le autorità ebraiche obiettarono : noi non abbiamo l’autorizzazione a condannare a morte.” La tradizione evangelica, dunque, conferma pienamente quella storica, esplicitando chiaramente il fatto che il Sinedrio non aveva l’autorità per eseguire una condanna a morte e che Gesù subì due processi, uno da parte del Sinedrio stesso per bestemmia (avendo dichiarato di essere figlio di Dio e di essere in grado di ricostruire il Tempio, dopo averlo distrutto, in soli tre giorni) e l’altro da parte dei Romani, sulla base della Lex maiestatis (per lesa maestà) per aver affermato di essere il Re dei Giudei : assolto da Pilato nel secondo (la scritta I.N.R.I., infatti, venne apposta solo per compiacere la folla), ricevette dunque la condanna a morte a seguito del primo, benché essa venne fatta eseguire dalle sole autorità competenti, cioè l’amministrazione romana.
Fra quelle non cristiane, oltre all’autorevole parere di Tacito, disponiamo inoltre delle testimonianze di Flavio Giuseppe, che, nel cosiddetto Testimonium Flavianum (Antiq. Iud. XVIII), riferisce che “su denuncia dei nostri notabili, Pilato lo condannò alla croce”, e della lettera dello stoico siriaco Mara Bar Serapion (ca. 73-160 d.C.) che riporta la notizia che “un saggio fu giustiziato dagli Ebrei”.
Si è molto discusso, sulla base dell’ambiguità con cui sia le fonti cristiane che quelle pagane riferiscono della crocifissione di Cristo, se la condanna sia stata effettivamente fatta eseguire da Pilato in obbedienza alle richieste del Sinedrio oppure se l’azione legale fu spontaneamente intrapresa dalle autorità romane.
Un’altra spinosa questione riguarda la responsabilità penale spettante al Sinedrio : i due episodi delle lapidazioni di Stefano (avvenuta nel 34 sotto il sommo sacerdote Caifa) e di Giacomo minore (avvenuta nel 62 sotto il sommo sacerdote Ananos) vanno attribuiti ad un’esecuzione ordinata in seno al Sinedrio o sono il frutto di una libertà eccessiva che i Giudei illegalmente si concedettero in occasione di due vuoti di potere momentanei dello stato romano ?
Nel primo caso, non si comprenderebbe perché i Giudei sarebbero ricorsi all’autorità di Pilato per risolvere una questione (l’eliminazione dello scomodo Cristo) che avrebbe potuto essere appianata internamente alla stessa Assemblea; nel secondo caso, che è estremamente più probabile, considerando che la lapidazione di Stefano fu una sorta di linciaggio e che quella di Giacomo portò alla deposizione di Ananos, pare esattamente confermata la tesi per cui il Sinedrio non ebbe mai l’autorità sufficiente per condannare a morte Gesù.