Sat. CXIV
Una tempesta in alto mare
Mentre parlavamo di queste cose, il mare divenne livido, e le nubi, radunatesi da ogni parte, avvolsero la luce con le tenebre. I marinai corrono pieni di paura ai loro posti, e rimuovono la le vele in previsione della tempesta. Ma il vento gonfiava flutti che cambiavano ad ogni momento, ed il timoniere non sapeva dove dirigere la rotta. Ora il vento ci spingeva verso la Sicilia, molto spesso l’aquilone che dominava faceva virare la fragile nave da una parte e dall’altra verso il litorale italiano e, fatto ben più pericoloso di tutte le tempeste, delle tenebre tanto fitte avevano improvvisamente soppresso la luce che il timoniere non riusciva a vedere nemmeno la prua per intero. Così, quando il pericolo giunse chiaramente al suo culmine, Lica tremando mi rivolge le mani giunte ed esclama: “tu, Encolpio, aiuta noi che siamo in pericolo e rendi alla nave la veste divina ed il sistro. In nome degli dei, abbi pietà, come appunto sei solito fare”. Il vento lo scaraventò in mare mentre urlava, e la tempesta, quando tornò a galla, lo circondò e lo inghiottì con un gorgo tremendo. Trifena stava per fare la stessa fine … la afferrarono i servi fedelissimi, e postala su una scialuppa con la maggior parte dei bagagli, la sottrassero ad una morte sicura.
Testo originale
CXIV. Dum haec taliaque iactamus, inhorruit mare, nubesque undique adductae
obruere tenebris diem. Discurrunt nautae ad officia trepidantes, uelaque tempestati
subducunt. Sed nec certos fluctus uentus impulerat, nec quo destinaret cursum gubernator
sciebat. Siciliam modo uentus dabat,
saepissime in oram Italici litoris aquilo possessor conuertebat huc illuc obnoxiam
ratem, et quod omnibus procellis periculosius erat, tam spissae repente tenebrae lucem
suppresserant, ut ne proram quidem totam gubernator uideret. Itaque +hercules+ postquam manifesta*
conualuit, Lichas trepidans ad me supinas porrigit manus et: "Tu, inquit,
Encolpi, succurre periclitantibus, et uestem illam diuinam sistrumque redde
nauigio. Per fidem, miserere, quemadmodum quidem soles". Et illum quidem uociferantem in mare uentus
excussit, repetitumque infesto
gurgite procella circumegit atque hausit. Tryphaenam autem prope iam ... fidelissimi rapuerunt
serui, scaphaeque impositam cum maxima sarcinarum
parte abduxere certissimae morti.
L'arrivo a Crotone
Dopo aver volentieri compiuto quest’incombenza [ il funerale di Lica ], ci mettiamo in cammino per la destinazione prefissata, e dopo poco siamo sulla sommità del monte tutti sudati, da dove scorgiamo non distante una città dominata da un’alta rocca. E, dato che giravamo senza meta, non sapevamo cosa fosse, finchè da un contadino apprendemmo che si trattava di Crotone, città antichissima ed un tempo prima in Italia. Poiché dunque cercavamo di sapere minuziosamente che genere di uomini abitassero quella nobile terra e a quale genere di commercio si dedicassero principalmente, dopo aver perso le ricchezze a causa delle continue guerre, disse: “miei forestieri, se siete mercanti, cambiate programma e cercatevi un altro mestiere. Se invece, da uomini più raffinati, sapete mentire in continuazione, correte dritti alla ricchezza. In questa città, infatti, non si celebrano gli studi letterari, l’eloquenza non ha importanza, la frugalità ed i costumi morigerati non portano in compenso alcuna lode, anzi sappiate che tutti gli uomini che vedrete in questa città sono divisi in due categorie. Infatti sono imbrogliati o imbrogliano.
Testo originale
CXVI. Hoc peracto libenter officio destinatum carpimus iter, ac momento temporis in montem sudantes conscendimus, ex quo haud procul impositum arce sublimi oppidum cernimus. Nec quid esset sciebamus errantes, donec a uilico quodam Crotona esse cognouimus, urbem antiquissimam et aliquando Italiae primam. Cum deinde diligentius exploraremus qui homines inhabitarent nobile solum, quodue genus negotiationis praecipue probarent post attritas bellis frequentibus opes: "O mi, inquit, hospites, si negotiatores estis, mutate propositum aliudque uitae praesidium quaerite. Sin autem urbanioris notae homines sustinetis semper mentiri, recta ad lucrum curritis. In hac enim urbe non litterarum studia celebrantur, non eloquentia locum habet, non frugalitas sanctique mores laudibus ad fructum perueniunt, sed quoscunque homines in hac urbe uideritis, scitole in duas partes esse diuisos. Nam aut captantur aut captant.
Fortunata, la moglie di Trimalcione
A questo punto persi completamente l'appetito, ma, voltatomi verso il commensale dal quale potevo ricavare il maggior numero di informazioni, presi a farmi raccontare pettegolezzi ed a chiedergli chi mai fosse quella donna che si vedeva passare di qua e di là. Quella - mi disse - è
la moglie di Trimalcione, si chiama Fortunata, e misura le monete a palate. E poco fa cos'era ? Mi perdoni il tuo genio, ma non avresti voluto
prender dalle sue mani neppure un pezzo di pane. Ora, non chiedermi come, è salita fino al cielo ed è il tuttofare di
Trimalcione. Per farti un esempio, se a mezzogiorno in punto gli dicesse che è notte, lui le crederebbe. Lui non sa nemmeno quanto
possiede, tanto è ricco sfondato; ma questa arpia bada a tutto, e persino dove non penseresti. E' parca, sobria e sempre piena di buoni consigli: vale tanto oro quanto pesa. Ma ha una linguaccia, ed è una vera gazza (?).
Chi ama, ama; ma se non ti ama, non ti ama. Lo stesso Trimalcione ha possedimenti che si estendono per quanto è lungo il volo dei nibbi: e soldi a palate. C'è più argenteria nella casupola del suo portiere di quanta ve ne possa essere nel patrimonio di qualcuno. E i servi, poi, cavolo ! Per Ercole, credo che nemmeno un decimo di loro conosca il padrone. Per farla breve, tutti questi cretini spacconi al suo confronto possono andare a nascondersi.
Testo originale
XXXVII. Non potui amplius quicquam gustare, sed conuersus ad eum, ut quam plurima exiperem, longe accersere fabulas coepi sciscitarique, quae esset mulier illa, quae atque illuc discurreret. Vxor, inquit, Trimalchionis, Fortunata appellatur, quae nummos modio metitur. Et modo, modo quid fuit? Ignoscet mihi genius tuus, noluisses de manu illius panem accipere. Nunc, nec quid nec quare, in caelum abiit et Trimalchionis topanta est. Ad summam, mero meridie si dixerit illi tenebras esse, credet. Ipse nescit quid habeat, adeo saplutus est; sed haec lupatria prouidet omnia, et ubi non putes. Est sicca, sobria, bonorum consiliorum: tantum auri uides. Est tamen malae linguae, pica puluinaris. Quem amat, amat; quem non amat, non amat. Ipse Trimalchio fundos habet, quantum milui uolant, nummorum nummos. Argentum in ostiarii illius cella plus iacet, quam quisquam in fortunis habet. Familia uero - babae babae! non mehercules puto decumam partem esse quae dominum suum nouerit. Ad summam, quemuis ex istis babaecalis in rutae folium coniciet.