L'attentato ad Ippia ed Ipparco ( Aristotele, La costituzione degli Ateniesi, 18, 3-5 )
Cum iam in Panathenais apud Acropolim Ippiam viderent – accidit enim ut ipse pompam susciperet, alter autem Ipparcus mitteret – cum viderent quendam ex iis qui rei participes erant in Ippiam incidere benigne atque eum rati se indicare, cum facere aliquid vellent ante prehensionem, cum descendissent atque ante tempus surrexissent, Ipparcum, qui pompam ornabat apud Leocorium, necavere et rem totam perdiderunt. Ex iis vero Armodius statim necatus a satellitibus eius, Aristogiton autem tardius prehensus atque longe suppliciis affectus et ipse necatus. Accusavere autem in suppliciis multos qui natura ex optimatibus erant atque qui tyrannis amici erant. Nullum enim confestim vestigium coniurationis invenere, sed saepe dictus rumor ut Ippias, armas veritus, deprehendit eos qui in pompa sicas ferebant haud verus, quia tunc vero cum armis non mittebantur, populus autem hoc tardius paravit.
Mentre ormai vedevano durante le feste Panatenee Ippia presso l’Acropoli – accadde infatti che quest’ultimo dovesse accogliere la processione, mentre Ipparco l’aveva inviata – poiché vedevano che un uomo, tra quelli che erano complici nel progetto, si avvicinava con fare amichevole ad Ippia e pensando che li volesse denunciare, desiderando agire prima di finire catturati, scesi ed alzatisi prima degli altri, uccisero Ippia, che organizzava i ranghi della processione presso il Leocorio, e rovinarono tutta l’impresa. Fra di loro, infatti, immediatamente Armodio venne ucciso dalle guardie del corpo di Ippia, mentre Aristogitone fu catturato più tardi e, a lungo torturato, fu anch’esso ucciso. Tuttavia sotto tortura confessarono molti che militavano per inclinazione tra i nobili e che erano amici dei due tiranni. Non trovarono sul momento alcuna prova della congiura, ma è falsa la diceria spesso ripetuta, che Ippia, che aveva paura delle armi, fece allontanare dalla processione quanti portassero dei pugnali, perché all’epoca non venivano inviati armati: è una tradizione popolare che è nata successivamente.
Il mito di Er ( Platone, Repubblica, X, 614b )
Exponam vero tibi non Alcinoi apologum, strenui autem hominis, Eris Armeni filii, Pamphilio genere nati. Qui enim cum olim in bello mortuus esset, post duodecim dies, cum iam putrida corpora tollerentur, integer ipse sublatus est, et domum vectus, cum iusta ei fierent, in rogo iacens ad vitam rediit et, cum redivissent, quae eo loco vidisset exposuit. Dixit igitur animam, postquam e se exisset, inter multas alias iter facere, eas autem mirum ad locum pervenisse, quo dixit duos terrae hiatus esse, qui finitimi erant, duos vero alios caeli. Iudices narravit inter eos esse, qui, cum sententiam dixissent, iustas iuberent dexteram viam tenere, sursum per caelum, sententiae signis in fronte earum ponitis; iniustas autem laevam viam tenere iubere deorsum, has quoque omnes cum in tergo omnium suorum scelerum signis.
Ti esporrò non la storia di Alcinoo, ma quella di un uomo valoroso, Er figlio di Armenio, proveniente di famiglia dalla Panfilia. Egli, infatti, morto un tempo in guerra, trascorsi dodici giorni, mentre già i cadaveri venivano portati via in putrefazione, fu recuperato intatto, e, riportato a casa, mentre ne venivano svolti i funerali, disteso sulla pira, ritornò in vita e, non appena ripresosi, raccontò cosa vi avesse visto. Disse dunque che la sua anima, dopo essere uscita da sé, compiva un cammino insieme a molte altre, e che queste giunsero ad un luogo straordinario, dove – disse – c’erano due fenditure del terreno, vicinissime, ed altre due del cielo. Fra queste fenditure – raccontò – si trovavano dei giudici, che, dopo aver pronunciato la sentenza, ordinavano ai giusti di tenere la destra, su verso il cielo, dopo aver posto sulle loro fronti un segno con la sentenza loro destinata; agli ingiusti di tenere la sinistra, giù verso il basso, anche questi ultimi tutti portando sulla schiena un marchio di tutti i loro misfatti.