Dal greco al latino

 

L'unità nel racconto (Aristotele, Poetica, 1451a)

Testo originale 

Fabula vero una est, haud ut quidam putant, si de uno disputetur. Multa enim atque infinita uni accidunt, ex quibus nihil unum est, sicuti vero cuiusdam res gestae multae sunt ex quibus nulla una fit actio. Ergo errare mihi videntur omnes poetae qui Heracleidem vel Theseidem composuere atque alia huiusmodi carmina. Putant enim, quia unus Heracles, unam et fabulam esse pertinere. Homerus autem, sicut et alia differt, et hoc bene conspicere videtur, per artem vel per naturam. Cum enim Odysseam crearet, haud omnia finxit quae ei accidere, ut vero apud Parnassum eum vulneratum, se furere simulavisse eum in militum evocatione, quarum rerum nihil aliud necesse fieri erat neque verisimile aliud fieri. Odysseam autem circum unam actionem composuit, quam diximus, similiter et Iliadem.

Il racconto è unitario, non come pensano alcuni, qualora si parli di una sola persona. Molte ed infinite vicissitudini accadono infatti ad una persona, da alcune delle quali non scaturisce alcuna unità, esattamente come sono molte le imprese di un’unica persona dalle quali non risulta una sola azione. Dunque mi sembra che siano in errore tutti i poeti che composero un’Eracleide od una Teseide o dei poemi di tal fatta. Pensano infatti, dal momento che uno è Eracle, che debba essere unico anche il racconto. Omero, invece, esattamente come è diverso anche per altri aspetti, sembra cogliere bene anche questo aspetto, grazie alla sua abilità poetica o forse per sua stessa natura. Mentre creava l’Odissea, infatti, non rappresentò tutto quello che accadde ad Ulisse, come ad esempio il fatto che fosse stato ferito sul Parnaso o che avesse fatto finta di essere impazzito durante la chiamata alle armi: di tutti questi particolari, nulla era necessario che fosse fatto accadere né far accadere altre cose verisimili. Al contrario, compose l’Odissea tutta attorno ad una sola azione, di cui abbiamo parlato, e così pure l’Iliade.

 

 

Commedia e tragedia: ruoli distinti (Aristotele, Poetica, 1449a - 1449b)

Testo originale       

Comoedia vero viliorum imitatio est, haud per omnia mala, sed turpitudinis; ridiculum quoque pars eius est: peccatum enim ridiculum est, atque deformitas doloris expers est neque exitialis, ut vero ridicula persona turpis est atque sine dolore distorta. Tragoedia autem seriae atque perfectae actionis imitatio, quae magnitudinem habeat, sine ullis pulchris verbis formarum in partibus, et ipsa per actores neque per explicationem, quae per pietatem atque formidinem harum animi affectuum purgationem perficiat. Hoc vero pulchrum verbum appello, quod et numerum et concentum et melodiam habeat; distincte autem formis hoc quod quaedam tantum per metros perficiat, iterum vero quaedam per melodiam.

La commedia è l’imitazione degli umili, e non attraverso tutti i loro mali, quanto piuttosto della loro turpitudine; persino il ridicolo ne è una parte. Infatti l’errore è ridicolo, e la deformità non si accompagna mai al dolore e non è mai causa di morte, proprio come la maschera ridicola è sconcia ed è distorta senza traccia di dolore. La tragedia, al contrario, è l’imitazione di un’azione seria e compiuta, che abbia una grandezza intrinseca, con parole ricercate, distintamente per ciascuna delle sue parti, e si ottiene attraverso gli attori e non attraverso il racconto, in modo tale da compiere – attraverso la commozione e la paura – la purificazione da queste passioni dell’animo. Per parola ricercata intendo quella fornita di ritmo e musica; distintamente per gli elementi, comporne alcuni con i versi, altri solo con il canto.