Iniziatori e creatori dell’arte della retorica, se dobbiamo credere alla tradizione greca, furono Corace e Tisia (che fu inoltre il maestro del grande Lisia). Costoro, infatti, cui abbiamo già accennato, furono i primi esponenti della cosiddetta retorica siciliana, e, probabilmente verso l’anno 465 a. C., redassero una sorta di “manuale” di retorica, con lo scopo di favorire quanti avessero subito l’esproprio delle proprie terre e dei propri beni da parte del tiranno di Siracusa, Trasibulo, ed avessero voluto riappropriarsene mediante un’azione giudiziaria condotta in tribunale. In realtà, al di là di quanto ci è stato tramandato dalla leggenda, comprendiamo bene che la nascita della retorica si dovette alle particolari condizioni economiche, sociali e culturali in cui la Grecia si era venuta a trovare – un vero unicum per quei tempi - e soprattutto alle condizioni ed al tipo di vita che la città-stato greca consentiva: all’interno della polis, infatti, il sistema politico e giudiziario che si erano creati e perfezionati nel corso degli anni quasi obbligavano il privato cittadino ad un continuo confronto con la collettività. Tuttavia, come abbiamo già notato, l’uso della parola come forma di dissuasione, persuasione od attacco sia in campo politico che giudiziario era già diffuso ben prima del V secolo a.C. e dell’invenzione di Corace e Tisia; fu solo a partire dal V secolo, però, che l’arte oratoria assunse le sue caratteristiche definitive e finì poi per specializzarsi nei vari settori, assumendo una forma ben precisa, destinata a divenire “classica”. Fino al VI secolo a.C., il mondo greco non conosceva la prosa, perchè la cultura greca arcaica privilegiava l’oralità per la trasmissione e la memorizzazione dei testi. E’ già Omero nei suoi poemi a mettere in luce quanto la parola giocasse un ruolo fondamentale, per il suo valore magico, probabilmente eredità di qualche civiltà antica le cui leggende finirono incorporate o furono d’ispirazione nei vari episodi. Non ha nemmeno bisogno di essere citata, ad esempio, la celeberrima eloquenza di Odisseo, dono prezioso fornitogli dagli dei, quasi si trattasse della forza o della bellezza concesse ad altri eroi (Odissea, VIII, 167-175).
Nel IX libro dell’Iliade, solo per citare qualche altro esempio, gli ambasciatori inviati da Agamennone cercano di convincere Achille a tornare a combattere e le loro perorazioni, secondo Quintiliano (Instit. Oratoria, X, I, 46) meritano di essere studiate:
XLVI. Igitur, ut Aratus ab Ioue incipiendum putat, ita nos rite coepturi ab Homero uidemur. Hic enim, quem ad modum ex Oceano dicit ipse amnium fontiumque cursus initium capere, omnibus eloquentiae partibus exemplum et ortum dedit. Hunc nemo in magnis rebus sublimitate, in paruis proprietate superauerit. Idem laetus ac pressus, iucundus et grauis, tum copia tum breuitate mirabilis, nec poetica modo sed oratoria uirtute eminentissimus.
XLVII. Nam ut de laudibus exhortationibus consolationibus taceam, nonne uel nonus liber, quo missa ad Achillem legatio continetur, uel in primo inter duces illa contentio uel dictae in secundo sententiae omnis litium atque consiliorum explicant artes?
Il mondo omerico, tuttavia, aveva ereditato da altre culture il significato ed il potere della parola, e non ne comprendeva appieno le potenzialità.
La prosa greca, possiamo dire, nacque a Mileto, ad opera dello storico ( logografo ) Ecateo, del quale sappiamo che fu il primo che, riferendosi alla propria opera, non utilizzò il verbo adw, ma il verbo grafw, nel senso di “scrivere”. Ancora nel V secolo, la prosa di Erodoto non si sarà allontanata molto dalle radici dell’oralità, conservando una struttura sovente paratattica, caratterizzata da frequenti opposizioni men - de, dovute alla finalità stessa dell’opera, destinata appunto ad essere letta pubblicamente in occasione di manifestazioni religiose o sportive. Si dovette attendere l’affermarsi della struttura della polis, con tutto il suo corollario di attività giuridiche e politiche, perchè la retorica divenisse un’arte. I grandi statisti erano obbligatoriamente grandi oratori e sapevano come convincere il popolo a seguire la propria volontà politica ( e a soddisfare le proprie ambizioni ): è sufficiente ricordare Solone, Pisistrato, Temistocle o Pericle. Numerosissime erano poi le occasioni della vita sociale della polis greca in cui mettere a frutto l’arte della parola: le feste religiose, a carattere pubblico, e poi gli eventi sportivi, i processi e le riunioni delle assemblee per il governo delle città stesse.
Il passaggio alla “prosa d’arte” – secondo le parole di Norden, La prosa d’arte antica -, cioè ad un periodare “artisticamente articolato”, si dovette tuttavia al sofista Gorgia di Leontini, giunto ad Atene nel 427 come ambasciatore della sua città contro la rivale Siracusa, che diede forma a quella “protoretorica” iniziata dai suoi predecessori siciliani, Corace e Tisia, circa 50 anni prima. La “protoretorica” si occupò probabilmente di dare ordine alla prosa, intervenendo sulla sintassi (taxis) del discorso e fissando le parti che devono comporre l’orazione, dall’esordio all’epilogo. Gorgia, invece, spostò l’attenzione soprattutto sull’elocutio, privilegiando l’aspetto “paradigmatico” della retorica, ovvero le figure, le simmetrie ed ogni altro espediente che potesse contribuire ad accrescere la psicagogia della parola.
Fu dunque la scuola di pensiero nata con la sofistica a dare il via ad una sorta di arricchimento del lato più tecnico e formale della retorica, ed in questo modo l’oratoria venne in seguito ad assumere caratteristiche distinte e ben precise in base alle finalità verso le quali era diretta. Si formarono così i “generi” specifici della retorica: quello giudiziario, tipico delle perorazioni nei tribunali; quello deliberativo, praticato dagli oratori politici per convincere le folle a seguirli, ed infine quello epidittico (detto anche dimostrativo), che veniva impiegato in massima parte durante le occasioni a carattere ufficiale e che trovò impiego anche per la creazione di discorsi fittizi, utile strumento di esercizio per il retore consumato e più tardi semplice componimento “di maniera”. Nacque in questo modo la figura del retore sofista, che si poneva (e si propagandava, per vendere meglio la propria attività professionale a chi ne faceva richiesta) quasi come un “professionista della parola”. Sfruttando, dunque, l’inconoscibilità del vero ed il fatto che – come sostenevano gli stessi sofisti – sempre fosse possibile dimostrare ogni proposizione e poi il suo contrario, il retore sofista finì per vendere la sua arte alla difesa non del vero, nè del giusto, ma piuttosto del verisimile (e dell’utile), come abbiamo già notato chiamando in causa le contrapposte visioni di Platone e di Aristotele.
Con il subentrare ed il successivo affermarsi di questa scuola di pensiero, la primigenia oratoria venne a suddividersi in due filoni distinti, dando vita alle professioni di retore e di logografo. Quest’ultimo termine, nel secolo VI e all’inizio del V a.C., soleva comunemente essere riferito agli scrittori di prosa, ed in particolare e in particolare a quegli autori che si erano occupati dei primi lavori di storiografia. La nuova connotazione del termine logografo, invece, passò ad indicare chi, grande esperto di diritto e soprattutto fecondo oratore, dotato di grande tecnica ed abilità persuasoria, vendeva questa sua particolare capacità a quanti, venutisi a trovare coinvolti in un processo e mancando della necessaria cultura od eloquenza per sostenere da soli – come richiesto dall’uso dei tribunali greci, dove mancava la figura di quello che oggi diciamo avvocato - l’arringa d’accusa od il discorso a propria difesa, ne richiedevano l’aiuto.
Viceversa, fu detto retore chi si presentava in assemblea e, facendo leva sulle proprie capacità oratorie, sulla propria influenza ed immagine pubblica, sulla propria cultura e rispettabilità, cercava di guidare dalla propria parte (o da quella di suoi amici o compagni politici) l’opinione popolare. Retore fu anche Apuleio, e nel suo caso potremmo tradurre, in base a quanto sappiamo della sua attività di oratore ed in base al preciso contesto culturale in cui si mosse, il termine retore come “conferenziere”, e retore fu anche Agostino, fino a diventare, dopo il trasferimento a Milano, retore ufficiale della città. Certamente i discorsi dei grandi oratori, forse perchè fossero conservati, oppure perchè servissero di esercizio per gli allievi che si avviavano a seguire l’esempio dell’illustre maestro, presero presto ad essere trascritti, e questo segnò il definitivo trionfo dell’arte oratoria, che venne successivamente codificata in un insieme ben preciso di regole, allontanandosi per sempre dalla sua origine orale, legata in un certo modo al potere magico della parola.