Encolpio, il protagonista del Satyricon, si trova ospite alla tavola di Trimalcione, verso la fine di una vera e propria maratona gastronomica, in cui il padrone di casa - attraverso una incredibile successione di portate - ha voluto dar sfoggio di tutta la sua ricchezza e della sua mancanza di raffinatezza e di buon gusto, come lo sguardo ironico di Petronio non manca di sottolineare, strizzando l'occhio al lettore.
Ora Encolpio, nauseato dal cibo - Non potui amplius quicquam gustare (Sat. 37) - , si rivolge ad un suo vicino di posto per spillargli qualche informazione sugli altri commensali che popolano la tavola di Trimalcione, scambiando con lui quattro chiacchiere: longe accersere fabulas coepi sciscitarique (Sat. 37). In particolare lo incuriosisce una donna che continua ad andare e venire dalla sala (mulier illa, quae atque illuc discurreret): la persona cui Encolpio ha posto la domanda si lancia allora in un'appassionata e colorita descrizione del personaggio in questione. Si tratta - spiega - di Fortunata, la moglie di Trimalcione, ora tanto influente sul marito che - se dicesse a mezzogiorno pieno che fosse sera - quegli le crederebbe ciecamente: Trimalchionis topanta est. Ad summam, mero meridie si dixerit illi tenebras esse, credet (Sat. 37). Ed oltre che di lei il vicino di tavola spettegola di altri personaggi che affollano il banchetto, raccontandone le improvvise ascese e cadute: c'è chi si è arricchito dal nulla - Reliquos autem collibertos eius caue contemnas. Valde sucossi sunt. Vides illum qui in imo imus recumbit: hodie sua octingenta possidet. De nihilo creuit (Sat. 38) - e chi ha invece perso tutto in un batter d'occhio, tanto da non avere forse nemmeno più i capelli liberi da ipoteca - Non puto illum capillos liberos habere (Sat. 38).
XXXVII. Non potui amplius quicquam gustare, sed conuersus ad eum, ut quam plurima exciperem, longe accersere fabulas coepi sciscitarique, quae esset mulier illa, quae atque illuc discurreret. Vxor, inquit, Trimalchionis, Fortunata appellatur, quae nummos modio metitur. Et modo, modo quid fuit? Ignoscet mihi genius tuus, noluisses de manu illius panem accipere. Nunc, nec quid nec quare, in caelum abiit et Trimalchionis topanta est. Ad summam, mero meridie si dixerit illi tenebras esse, credet. Ipse nescit quid habeat, adeo saplutus est; sed haec lupatria prouidet omnia, et ubi non putes. Est sicca, sobria, bonorum consiliorum: tantum auri uides. Est tamen malae linguae, pica puluinaris. Quem amat, amat; quem non amat, non amat. Ipse Trimalchio fundos habet, quantum milui uolant, nummorum nummos. Argentum in ostiarii illius cella plus iacet, quam quisquam in fortunis habet. Familia uero - babae babae! non mehercules puto decumam partem esse quae dominum suum nouerit. Ad summam, quemuis ex istis babaecalis in rutae folium coniciet.
XXXVIII. Nec est quod putes illum quicquam emere. Omnia domi nascuntur: lana, credrae, piper: lacte gallinaceum si quaesieris, inuenies. Ad summam, parum illi bona lana nascebatur; arietes a Tarento emit, et eos culauit in gregem. Mel Atticum ut domi nasceretur, apes ab Athenis iussit afferri; obiter et uernaculae quae sunt, meliusculae a Graeculis fient. Ecce intra hos dies scripsit, ut illi ex India semen boletorum mitteretur. Nam mulam quidem nullam habet, quae non ex onagro nata sit. Vides tot culcitras: nulla non aut conchyliatum aut coccineum tomentum habet. Tanta est animi beatitudo! Reliquos autem collibertos eius caue contemnas. Valde sucossi sunt. Vides illum qui in imo imus recumbit: hodie sua octingenta possidet. De nihilo creuit. Modo solebat collo suo ligna portare. Sed quomodo dicunt - ego nihil scio, sed audiui - quom Incuboni pilleum rapuisset, et thesaurum inuenit. Ego nemini inuideo, si quid deus dedit. Est tamen sub alapa et non uult sibi male. Itaque proxime cum hoc titulo proscripsit: "C. Pompeius Diogenes ex kalendis Iuliis cenaculum locat; ipse enim domum emit". Quid ille qui libertini loco iacet? Quam bene se habuit! Non impropero illi. Sestertium suum uidit decies, sed male uacillauit. Non puto illum capillos liberos habere. Nec mehercules sua culpa; ipso enim homo melior non est; sed liberti scelerati, qui omnia ad se fecerunt. Scito autem: sociorum olla male feruet, et ubi semel res inclinata est, amici de medio. Et quam honestam negotiationem exercuit, quod illum sic uides! Libitinarius fuit. Solebat sic cenare, quomodo rex: apros gausapatos, opera pistoria, auis, cocos, pistores. Plus uini sub mensa effundebatur, quam aliquis in cella habet. Phantasia, non homo. Inclinatis quoque rebus suis, cum timeret ne creditores illum conturbare existimarent, hoc titulo auctionem proscripsit: "C. Iulius Proculus auctionem faciet rerum superuacuarum".
37 A questo punto persi completamente l'appetito, ma, voltatomi verso il commensale dal quale potevo ricavare il maggior numero di informazioni, presi a farmi raccontare pettegolezzi ed a chiedergli chi mai fosse quella donna che si vedeva passare di qua e di là. Quella - mi disse - è la moglie di Trimalcione, si chiama Fortunata, e misura le monete a palate. E poco fa cos'era ? Mi perdoni il tuo genio, ma non avresti voluto prender dalle sue mani neppure un pezzo di pane. Ora, non chiedermi come, è salita fino al cielo ed è il tuttofare di Trimalcione. Per farti un esempio, se a mezzogiorno in punto gli dicesse che è notte, lui le crederebbe. Lui non sa nemmeno quanto possiede, tanto è ricco sfondato; ma questa arpia bada a tutto, e persino dove non penseresti. E' parca, sobria e sempre piena di buoni consigli: vale tanto oro quanto pesa. Ma ha una linguaccia, ed è una vera gazza (?). Chi ama, ama; ma se non ti ama, non ti ama. Lo stesso Trimalcione ha possedimenti che si estendono per quanto è lungo il volo dei nibbi: e soldi a palate. C'è più argenteria nella casupola del suo portiere di quanta ve ne possa essere nel patrimonio di qualcuno. E i servi, poi, cavolo ! Per Ercole, credo che nemmeno un decimo di loro conosca il padrone. Per farla breve, tutti questi cretini spacconi al suo confronto possono andare a nascondersi.
38 E non ti credere che compri qualcosa. Gli cresce tutto in casa: lana, cedri, pepe. E se gli chiedi latte di gallina, lui te lo trova. Per fartela breve, visto che la lana di sua produzione non era un granché, ha acquistato a Taranto dei montoni fuoriclasse e li ha messi a montare il gregge. Un'altra volta, per avere miele dell'Attica in casa, ha ordinato che gli portassero le api dall'Attica, in modo che le api nostrane migliorassero un po' stando insieme alle greche. Addirittura in questi giorni ha scritto in India che gli spediscano il seme dei funghi. Non ha una sola mula che non sia figlia di un onagro. Guarda quanti cuscini: ebbene, sono tutti imbottiti con porpora o scarlatto. Questa sì che è fortuna! Gli altri suoi compagni di schiavitù di un tempo, occhio a non prenderli sotto gamba. Si son fatti i soldi anche loro. Lo vedi quello, seduto fra i liberti? Come se l’è passata bene ! Non lo rimprovero. Si è visto il suo bel milioncino di sesterzi, ma è andato in rovina. Penso che nemmeno i capelli gli rimangano senza ipoteca. E non è per Ercole colpa sua; non c’è infatti uomo migliore di lui: ma sono stati i liberti scellerati che si sono portati via tutto. E ricordati: la pentola degli amici bolle male, e quando gli affari vanno male, gli amici si tolgono di torno. E che mestiere onesto esercitò, così come lo vedi: era impresario di pompe funebri. Era dunque solito cenare come un re: cinghiali ricoperti di pelo, capolavori di pasticceria, uccelli, cuochi, fornai. Si versava più vino sotto la sua mensa di quanto qualcuno ne abbia in cantina. Era una fantasmagoria, non un uomo. Quando anche gli affari presero una brutta piega, perché aveva paura che i creditori pensassero che fosse nei guai, pubblicò un avviso d’asta con queste parole: C. Giulio Proculo mette all’asta quello che non gli serve"».