Dal complesso di queste osservazioni (comunque non pienamente organiche, quanto piuttosto basate su singoli episodi in cui il pensiero ed i commenti personali dello storico più facilmente traspaiono) emerge un pessimistico quadro di una divinità che, se non volubile ed invidiosa, per Erodoto è tuttavia in grado di rendere estremamente difficile la vita dei mortali. Si possono citare le eccezioni, gli uomini “felici e fortunati” che hanno avuto in dono un’intera esistenza serena e scevra di difficoltà, come il celebre Tello di Atene del discorso di Solone a Creso (I, 30), ma sono appunto eccezioni nel quadro delle Storie.
Non solo: lo stesso storico, per bocca dei suoi personaggi, nel medesimo episodio ribadisce che tale destino è una rarità, con probabilità esigue di ripetersi (come ad esempio traspare nel celebre “conteggio dei giorni” in I,32). Tali fortunate esistenze, proprio in quanto eccezionali, ben inquadrano il pessimismo di fondo di Erodoto, che ha – come precedentemente accennato – profondi contatti ed analogie con il pensiero greco dei contemporanei, soprattutto nei tragediografi.
Per Sofocle, ad esempio, la felicità non è che un’illusione (Edipo Re, 1186-1192).
Il pensiero di Erodoto che siano le vicende a dominare la vita dei mortali e non gli uomini ad imporsi sulle vicende (VII, 49) trova un’eco ancora in Sofocle (Edipo Re, 977-978).
Né al mortale è concesso di lamentarsi della propria sorte, perché spesso la divinità rovescia fin dalle sue radici proprio chi mostrava fino ad un attimo prima di godere di ogni fortuna (I, 32): come abbiamo visto, l’eccesso in ogni sua forma viene punito e prima di poter giudicare un uomo davvero “felice e fortunato” bisogna attenderne la morte, perché molti sono i giorni della vita ed alla divinità si addice lo sconvolgimento delle sorti umane. Anche questo pensiero si riallaccia ai tragici: possiamo citare ad esempio Eschilo (Agamennone, 928-929) o Sofocle (Edipo Re, 1528-1530).
L’obiettivo più ambito per l’esistenza di un uomo appare dunque la morte – e questo è di nuovo un tema trasversale a buona parte del pensiero greco, dai lirici ai tragici – come ribadisce lo storico stesso, affermando che morire, dal momento che la vita è così colma di preoccupazioni, è di gran lunga il miglior rifugio per l’uomo (VII, 46).
Un paragone interessante viene dalla lettura di alcuni passi di Pindaro, specialmente se lo si inquadra temporalmente circa una generazione prima di quella di Erodoto, quando ancora dominavano gli ideali dell’aristocrazia ed il concetto di isonomia o democrazia era solo in nuce. Ebbene, nell’elogiare i campioni dei Giochi, che gli commissionavano i propri componimenti, Pindaro non esita ad aggiungere un richiamo alla modestia, perché è ben consapevole che il successo e la fortuna sono provvisori e che l’esistenza umana è “il sogno di un’ombra” che prende luce solo se Zeus (in quanto garante della giustizia divina) lo vuole (Pitiche, VIII, 95-97):
Ancora, il poeta ricorda che la fortuna degli atleti è mutevole a causa dello jqonos divino, in cui è prudente non incorrere mai (Pitiche, X, 20-29).
Un’importante differenza separa il pensiero di Erodoto da quello di Pindaro (segno questo di un mutamento dei tempi e di nuove e differenti prospettive aperte nel cittadino greco dalla battaglia di Salamina e dall’inedito ruolo da protagonista assunto dalla Grecia nel panorama mondiale): mentre Pindaro è certo che i suoi saggi consigli siano non solo recepiti dal suo pubblico ma anche utili, Erodoto – nel suo pessimismo – è convinto che i consigli che invitano alla moderazione siano dannosi, oltre che inascoltati. Così, è impossibile che un uomo riesca a distogliere un altro uomo dal destino che gli è assegnato (III, 43).
Incomprensione e rovina infatti seguono i consigli di Solone a Creso (I, 33), di Creso a Ciro, di Amasi a Policrate (gli dei ignorano il celebre sacrificio del prezioso anello) e di Artabano a Serse.
Innumerevoli passi si potrebbero citare a questo proposito. Ad esempio, nello scambio di battute tra Tersandro di Orcomeno ed un ufficiale dell’esercito persiano (IX, 16) si giunge all’amara conclusione che la peggiore delle umane disavventure è proprio non avere alcun potere pur possedendo una visione lungimirante che consenta di comprendere molte cose: nessuno infatti si fida di chi pure dice cose degne di fede e quanti anche comprendono sono comunque vincolati dalla necessità – il fato che non lascia alternative e costringe i mortali nella sua morsa.