Jacob Burckhardt, nella sua celebre raccolta di testimonianze riguardo il cosiddetto “pessimismo greco”, parla di “volontà di tetraggine” dell’uomo greco. Tale “volontà” si rispecchia, a suo avviso, soprattutto nella forma data dai tragediografi ai miti che essi mettevano in scena, esattamente negli stessi anni in cui il nostro storico elaborava e fissava nella sua opera il proprio pensiero. La serie infinita di ingiustizie patite dai mortali nei miti greci ed il senso di sottile ed invidiosa perfidia con cui gli dei si prendono gioco di loro rende il più delle volte desiderabile la morte – tema questo ricorrente nella tragedia. Lo storico C. Meier sottolinea come tale pessimismo sia “intrinseco” a tutta la grecità – e condiviso da Erodoto (proprio in quanto figlio del suo tempo), come si evidenzierà meglio in seguito attraverso esempi di logoi delle Storie – e molto debba alla mancanza di un ben definito centro politico di rilievo e di tutto l’apparato ideologico (e religioso) ad esso normalmente connesso (come fu invece il caso della civiltà romana). Sofferenza, paura e fantasia, scrive Meier, sono in tale situazione particolarmente libere di esprimersi, trasferendosi poi naturalmente e spontaneamente nei miti e quindi nella produzione letteraria. Soprattutto nelle tragedie, non è difficile infatti leggere – o quantomeno intuire tra le righe – amare riflessioni sulla vita politica dell’Atene del V secolo e sulle drammatiche scelte che infine ne causarono il tracollo. Un potere non dotato di “legittimazione teologica”, continua Meier, lascia libere di svilupparsi teorie imperniate sul continuo alternarsi delle vicende umane, con andamento ciclico. Anche questo, è opportuno notare, è tema caro a Erodoto, che addebita proprio alla ciclicità della storia il fatto che nessuna città (e civiltà) possa rimanere grande per sempre: chi era piccolo e sconosciuto prima o poi crescerà e chi era grande e splendido tramonterà (I, 5).
Uguali le sorti degli uomini. Nel discorso di Creso, re dei Lidi sconfitto da Ciro, emerge tutta questa saggezza greca (che è poi il pensiero stesso di Erodoto, che parla attraverso i personaggi che mette in scena): “Sappi innanzitutto che nelle vicende umane vi è un andamento ciclico, che non consente che siano sempre gli stessi ad essere felici (I, 207)”. Questo è l’ammonimento di un uomo che – come verrà più ampiamente notato in seguito – ha imparato dalle sue sofferenze, esattamente come l’Agamennone di Sofocle. Di nuovo emergono le profonde connessioni tra generi letterari profondamente diversi eppur sottilmente legati dal fatto di non essere che l’espressione di un medesimo ed intensissimo contesto storico. In ogni caso, tale pessimismo è anche frutto, oltre che dell’instabilità politica e del conseguente senso di smarrimento, anche delle incredibili aspirazioni dell’uomo greco. Tali altissime pretese, che potevano essere colte appieno solo nel periodo della giovinezza, facevano sì che agli occhi dei mortali solo questa “stagione di primavera dai molti fiori” fosse gradita, e che il resto della vita fosse percepito come lento declino: meglio allora morire piuttosto che vivere rinunciando ai propri ideali di grandezza. E questo fu proprio il caso dell’Atene del V secolo, lanciata in un’epoca in cui la storia ed i suoi eventi si dipanarono ad una velocità troppo elevata perché i cittadini potessero comprenderne appieno gli effetti: eppure, quegli stessi eventi erano stati provocati proprio dalla città che – con la sua politica egemonica e con le sue elevate aspirazioni a porsi come punto di riferimento di tutto l’Egeo – aveva osato espandersi ed imporre il proprio dominio oltre ad ogni limite imposto dal buon senso e dal timore dell’ubris cui ogni mortale dovrebbe sottostare. Al contrario, i Romani, con il loro formalismo religioso ed i loro riti codificati che esoneravano i cittadini dall’interpretazione diretta degli eventi, incanalavano nella “normalità” pensiero e fantasie: i Greci, mancando questo appoggio, erano direttamente esposti ad eccessi sia nell’esaltazione sia nella disperazione, tanto che persino il loro linguaggio (e quello della tragedia in modo particolare) ne veniva influenzato.