E’ ormai assodato che gli anni a partire dalla seconda guerra punica rappresentano un momento di svolta nella storia di Roma: da adesso si afferma come tendenza del corso dei prossimi secoli un processo di concentrazione capitalistica che avrà enormi conseguenze in ambito economico, sociale, politico e religioso.
Nella nobilitas senatoria, detentrice del potere politico, era ormai emersa vittoriosa quella tendenza imperialistica ed espansionistica che, trovando appoggio nelle grandi clientele mercantili e facendosi portavoce delle loro esigenze, aveva portato Roma al dominio del Mediterraneo.
Questo fatto, però, comportò una serie di conseguenze. La spinta imperialistica, determinata, come abbiamo visto, da interessi mercantili, era antitetica e concorrenziale rispetto a qualsiasi politica agraria, che avrebbe finito inevitabilmente per farne le spese. Cominciano proprio ora i primi sintomi di una lunga crisi. I contadini abbandonano i campi per i lunghi anni di servizio militare; alla fine della guerra si trasformano in ager publicus i terreni di quelle regioni che si erano ribellate a Roma, passando dalla parte di Annibale. Gli imprenditori risiedono nella capitale e amministrano da lontano un patrimonio che dovrebbe essere comunitario. La tradizionale piccola azienda agricola a policoltura viene messa in crisi e viene sostituita dalla grande unità capitalistica, a monocoltura, spesso a pastorizia. In essa viene impiegata manodopera servile, che ora si comincia ad importare con le guerre, con i traffici della pirateria, col commercio degli schiavi. Immediata conseguenza sul piano politico sarà la perdita di significatività politica delle plebi rurali, che ancora nel III secolo erano state in grado di far sentire la propria voce in città.
Questo fenomeno, tuttavia, non si verificò nel giro di pochi anni, ma la linea di tendenza fu sicuramente questa e verso tale modello andarono adeguandosi le singole regioni.
Roma diventa l'unico polo di attrazione, ma, se la città è un richiamo per le plebi rurali, le plebi urbane entrano in crisi. Queste ultime, infatti, non possono affrontare la duplice concorrenza esercitata sia dagli immigrati che dalle masse servili, pure introdotte a decine di migliaia nella capitale e utilizzate massicciamente, con ogni probabilità, nell'ambito delle nuove grandi imprese artigianali, che producono ormai per l'esportazione su tutta la penisola. Da questi fatti deriva la crisi politica della plebe urbana, che inizia a perdere quella rappresentatività che aveva nel secolo precedente, che sarà gradualmente spoliticizzata e che verrà strumentalizzata durante le guerre civili.
Il processo di concentrazione capitalistica avvia dunque anche la crescita di dislivelli economici, molto più forti che in passato (fino a prima delle guerre – potremmo dire - si era più o meno tutti poveri alla stessa maniera, patrizi e plebei), destinati ad aumentare sempre più con il passare del tempo.
Sul piano politico tutto ciò coinciderà con un processo di concentrazione del potere nelle mani di una ristretta oligarchia, che poteva anche essere, al suo interno, divisa per interessi di gruppo, ma che, all'esterno, sarà sempre pronta a mostrare una facciata solidale, di solidarietà di ceto, talvolta anche in emergenza. Lo stesso avviene anche per la repressione dei baccanali, che possiamo cominciare a ipotizzare come un tentativo di protesta sociale, all'interno del quale erano confluite varie forme di risentimento, messe a nudo da una crisi, che era ancora agli albori, ma le cui caratteristiche erano ormai ben delineate.
Di fatto, l'intervento contro i baccanali non fa che rappresentare, in modo scoperto, il volto repressivo di una società, in cui pochi pretendono di governare su molti.
Ci rimane dunque da esaminare quali settori della società fossero più direttamente rappresentati nelle associazioni bacchiche e, rispettivamente, quali aspetti della crisi sociale si configurassero entro la forma della protesta religiosa.